IL MONTEBORE

Ciao Carolina, grazie a te oggi il Montébore è patrimonio di biodiversità

09/04/2022

Carolina se n’è andata. Noi di Slow Food la chiamavamo la “signora del Montébore”.

Alla fine degli anni ’90, aveva trasmesso a Roberto e Agata, due giovani della Val Borbera, nel Tortonese, una tradizione casearia altrimenti perduta per sempre. Per tutta la vita aveva coltivato l’orto, allevato e in primavera e autunno fatto formaggette da vendere al mercato o da consumare direttamente in famiglia. Poi il marito viene a mancare, gli animali non si possono più tenere, e lei cessa di produrre quelle formaggette dalla strana forma a torre, o torta nuziale.

Ma il ricordo del formaggio rimane e vent’anni dopo, in quella valle che inizia a dare segni di spopolamento e dalla quale si fugge per trovare lavoro altrove, nelle fabbriche e negli uffici di Novi, della Liguria, la Condotta Slow Food di Gavi inizia a riflettere sul patrimonio agricolo e gastronomico che rende unico quel territorio.

Sono gli anni del recupero del timorasso ma l’agricoltura locale propone anche altro, le fagiolane, le ciliegie a Garbagna. La Condotta, guidata da Maurizio Fava, attrae intorno a sé un gruppetto di giovani, alcuni funzionari illuminati delle Comunità Montane, studiosi dell’Università di Torino e, insieme a Guido Tallone della scuola casearia di Moretta (Cn), si inizia a sognare di recuperare quel formaggio dal passato glorioso, servito alla festa di nozze di Isabella di Aragona e Gian Galeazzo Sforza nel 1489.

Ma serve qualcuno che ricordi i passaggi produttivi, perché i documenti scritti, alcuni risalenti a due secoli prima, non dicono nulla sulla sua produzione. Così si arriva a Carolina che, usando una pentola per scaldare il latte sui fuochi della sua cucina, riporta in vita il Montébore. Nel 1999 le prime cinque forme si assaggiano a Cheese.

Carolina Bracco ha vissuto una vita semplice, legata alla terra, e così vivendo ha perpetuato qualcosa di unico. Un sapere specialissimo, che non si può mettere per iscritto, che non si può insegnare raccontando, che si può imparare solo facendo, insieme.

È la magia del lavoro artigiano che richiede anni di osservazione, in cui si impara a capire il latte con un tocco lieve, a valutare con sensi attenti la temperatura di un mattino freddo e l’umidità dell’aria, un sapere che quando si apprende è per sempre.

Roberto ci racconta che quando pensa a Carolina gli appare un’immagine, una specie di istantanea: le sue mani sapienti che trafficano con le fascelle, simili ad attrezzi, veloci, sicure, ripetendo gesti che nella sua vita si erano succeduti centinaia di migliaia di volte. Un sapere che a Carolina aveva passato la madre, e che derivava da generazioni di donne che prima di lei avevano accudito pecore e vacche, munto e lavorato il latte.

Anche quando le scatole di Montébore dalla piccola Val Borbera partivano per i mercati del mondo, lei ripeteva a Roberto e Agata “il mio formaggio di una volta era più buono”. Roberto sorride a questo ricordo “Penso volesse incitarmi a fare meglio. O forse voleva dirmi a modo suo che quel formaggio di un tempo in realtà non si potrà fare mai più. Perché quel latte di una volta non c’è più. Quel modo di produrre, su piccola scala, allevando al pascolo, caseificando solo in primavera o autunno, è difficile praticarlo oggi. Nella nostra valle sono rimasti solo due allevatori di bovini e pochi di ovini. Abbiamo salvato la tecnica, ma l’allevamento locale non ha ancora superato la sua crisi.”

A cura di Raffaella Ponzio, responsabile Presìdi Slow Food

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