Malvagia consuetudine pasquale.

Da tanti anni, troppi, sono via dal mio paese natio; là c’è rimasto il mio cuore e mia sorella, così per accontentare l’uno e l’altra, di tanto in tanto ritorno.

Rivedere i luoghi della mia giovinezza è sempre un grande piacere, ogni angolo cela un ricordo. Godere poi dell’ospitalità di mia sorella e di tutta la sua famiglia fedele imperterrita agli usi e costumi del paese è altro gioioso piacere. Poi, appena troviamo un momento di solitudine, mi fa piacere sentire le novità: chi se n’è andato, chi si è sposato, la vita e le chiacchiere che girano intorno alle persone che conosco e conoscevo.

Qualche giorno addietro è stato l’ultimo rientro. E’ abitudine consolidata ritornare per gli auguri pasquali, lo scambio di qualche dono e la tavolata generale. Trovato il momento di intimità, questa volta, mia sorella, dopo qualche pettegolezzo, mi ha raccontato un fatto famigliare che non conoscevo, una vicenda pasquale. Ve lo racconto, anche perché se ne può trarre una morale.

Parliamo di parecchi anni fa. Io ero già partito per altri lidi, purtroppo. Mia sorella invece, molto più determinata di me e tradizionalista, è sempre stata fedele alla famiglia, al paese, alla nostra casa, alla nostra campagna. Orbene, nei mesi freddi invernali, da metà dicembre a fine febbraio, i pastori erano e credo ancora, erano soliti portare il loro gregge in pianura e il nostro terreno, sito nella bassa veronese, faceva parte dei loro itinerari; così un anno dopo l’Epifania, arrivò un gregge anche nelle nostre campagne. I pastori, quale ringraziamento offrivano ai contadini, che permettevano il pascolo, qualche formaggella. Nella nostra famiglia non era costume consumare formaggio, così, papà e pastore cercarono un accordo che soddisfacesse entrambi. Il pastore fece un’offerta:”Questa sera, massimo entro domani sera una pecora deve partorire, le offro l’agnellino che nascerà”. Papà non seppe dare una risposta, rimase senza parole “Io non ho mai allevato un agnellino, non sò da che parte cominciare”. “Facile….. facile, per il primo mese lo svezza con un ciuccio e latte vaccino, poi, quando comincerà a brucare l’erba, di erba lei ne ha da vendere e non sarà certo un problema, a Pasqua lei avrà un magnifico esemplare e potrà portare in tavola una carne gustosissima per un grande pranzo”. Papà non era convinto:”Ne parlerò a casa e ritornerò per una risposta”. A casa fu fatto un consulto al quale partecipò anche lo zio, che, nelle decisioni importanti non mancava mai e fu stabilito di accettare l’offerta. Mamma non tanto convinta, la sorella e lo zio entusiasti: l’una poteva esercitare la sua propensione alla maternità, l’altro assaporava già il pranzo pasquale. Bisogna chiarire che la nostra famiglia e quella dello zio erano unite e solevano festeggiare sempre assieme.

Bene. Il giorno seguente la pecora partorì e grande fu la sorpresa: il parto fu gemellare. Il pastore non battè ciglio:”La promessa è promessa, sono suoi tutti e due”. Papà, esultante, li mise in un cesto imbottito di paglia e li portò a casa. Sorella e zio fuori dalle grazie per la contentezza; la prima si procurò biberon e latte e si mise all’opera, il secondo promise di mettere in piedi, al più presto, un recinto per accoglierli sin dai primi passi.

Crebbero, e se crebbero, gli agnellini in men che non si dica divennero una meraviglia. Mia sorella li alimentava con passione e affetto e loro nel recinto correvano belando allegramente. Lo zio veniva tutti i giorni a controllare la situazione e spesso li lasciava correre anche fuori dal recinto in un campo coltivato a erba medica.

Così giorno dopo giorno venne il periodo pasquale. Lo zio cominciò a proporre l’abbattimento:”Non si può aspettare oltre, la carne deve essere messa in frigor per la frollatura” e rivolgendosi a papà:”E’ ora, ti devi decidere”. Al sentire queste parole la mia sorellina si metteva a piangere e papà si allontanava, non voleva pensare a sopprimere quegli animaletti così carini e simpatici. Se un famigliare si avvicinava al recinto, gli correvano incontro belando e si alzavano sulle zampe posteriori quasi a volerlo abbracciare, facevano ormai parte della famiglia.

Lo zio, che non voleva rinunciare al pranzo pasquale, prese una decisione drastica:”Ho capito, qui nessuno si vuole prendere l’incombenza, allora ci penso io, vado dal macellaio del paese e lo mando qui, voi gli date gli agnelli e ci pensa poi lui al resto. Chiaramente ci rimetteremo qualche pezzo, ma sono due e per noi ce n’è abbastanza.”

Il giorno dopo ecco apparire il macellaio, tutto contento, sicuro della prelibatezza delle carni, ma nessuno si permise di dargli gli agnelli, né quel giorno, né il giorno dopo, né mai. Gli agnelli a Pasqua hanno potuto belare felici e contenti, la campanellina che portavano al collo non finiva mai di suonare, scorazzarono per il prato d’erba medica tutto il giorno.

Per volontà di tutta la famiglia si lasciarono vivere e diventare adulti, non solo, ma tutti decisero di non mangiare mai più carne d’agnello; di malavoglia lo promise anche lo zio, che subito se l’era avuta a male.

Passò un anno, ritornò il pastore sulle nostre terre, incontrò papà e subito chiese se fosse stato soddisfatto del pranzo pasquale. Papà rispose di si ma per un motivo, per non aver ammazzato gli agnelli e per aver mangiato altro. Poi confidò al pastore che gli agnellini erano diventati pecore e di voler ridargliele in dietro acciocchè potessero vivere nel gregge che era stato tolto loro.

Finì così la storia legata alla Pasqua e, almeno per la nostra famiglia, la triste abitudine di incentivare la mattanza di migliaia di tenere bestiole a soddisfazione di palati culturalmente contorti.

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